Cercando nel labirinto degli specchi

Sunday 30 September 2012

Merry Halloween

Si sentiva impura.
Sporca.
Colpevole.
E continuava a lavarsi, come se tutto il suo corpo fosse stato lordo del suo peccato.
Si sentiva impura, sporca, colpevole, e continuava a lavarsi le mani, come se la sua pelle fosse stata ancora imbrattata dei suoi errori.
Aveva accarezzato un mostro. L'aveva...
L'orrore la faceva vacillare, ogni volta che il ricordo le si affacciava alla mente, a quella stessa coscienza che aveva cercato di sedare, perché i sensi di colpa non la macerassero.
Troppo bello, sarebbe stato.
I sensi di colpa stavano già banchettando sulla sua anima in putrefazione.
Non c'era più nulla da fare.
Lo sentiva ancora dentro di lei. Sì, ormai l'era entrato sottopelle, aveva spanto in lei il suo veleno, che scorreva al posto del suo sangue, un'infezione inarrestabile... Eppure, quella notte, lei era stata felice.
Ora vagava per la casa, al buio, gli scuri chiusi, le candele spente.
Gli specchi, infranti tutti in mille pezzi.
Non voleva vedersi, perché già sapeva ciò che avrebbe visto.
Il suo cuore le faceva schifo.
Il suo corpo le faceva paura.
Aveva dolori ovunque, fitte muscolari che colpivano all'improvviso, come pugnalate.
Sentiva ancora il tocco di lui su di lei. Quel bisturi. La carne che si lacerava, mentre lui entrava, in assoluto silenzio.
Aveva sentito urlare il calore delle sue lacrime.
Si toccò la pancia. Anche gli addominali le facevano male.
Il telefono non squillava. Non l'avrebbe fatto.
Si toccò le labbra, e il ricordo della bocca di lui la colpì come un flash, abbagliandola.
Quel trucco, di un rosso così cupo... aveva macchiato anche lei... quando lui l'aveva baciata...
Gli occhi di lui, di un rosso così perfido... non avevano mai smesso di brillare del loro fuoco malvagio, mentre la stringeva a sé... l'aveva come legata... lei non si era mossa, mentre lui...
Sorrise.
Ricordò la sensazione di essere nelle sue mani, ricordò la sensazione delle loro dita che s'intrecciavano.
Lui che la baciava - la perfetta corrispondenza tra le loro bocche, i pallore mortale di entrambi... e quando, ricadendo stanco sopra di lei, lui aveva chiuso gli occhi, per un attimo, adagiandosi contro il corpo caldo della sua vittima.
Il suo volto svelato, quando finalmente la pioggia ne aveva lavato via la maschera.
Il sorriso che non avevano potuto fare a meno di scambiarsi. Non era stato un sorriso di scherno - anche lui se ne era accorto, e subito aveva distolto lo sguardo.
Poi, le aveva porto una carta da gioco, le aveva accarezzato gli angoli della bocca, ancora umidi di sangue e rossetto, e senza parlare se n'era andato.
Buon Halloween, le aveva detto.
Piano, con un sussurro, timido, quasi.

E lei, guardando i loro riflessi che si dividevano, nella pozzanghera che li separava...
Buon Halloween, gli aveva risposto.

Thursday 27 September 2012

Joker face

Il cielo era rosso di sangue, in quel tramonto sulla fine del mondo.

Si voltò a guardare l'uomo che dormiva accanto a lei, avvolto nelle coperte come in un sudario.
Lei aveva ancora il viso sporco del suo trucco - il volto di lui era nudo, invece, disarmato dalla maschera, ora  quasi innocente... il volto di un bambino.
Guardò le sue cicatrici, adesso svelate, libere da quel rosso sangue rappreso che le accentuava ogni notte, sentendo salire dal cuore, dai fianchi, il calore che l'aveva sciolta quando le aveva sfiorate - prima, leggera, con la punta delle dita, poi sempre più stordita con le labbra... da un lato all'altro della bocca di lui, fino a ritrovarsi a leccarle, e finire a baciarlo senza più riuscire a pensare.
Lui si era lasciato prendere i polsi, mentre lei gli saliva sopra, incapace di smettere di stringere le sue braccia bianche cadavere, dalle vene inquietantemente in rilievo, come per trattenerlo con lei, là, in quel letto disfatto, al riparo dal mondo che voleva loro male... finché non aveva rovesciato i ruoli, bloccandola sotto di sé, senza mai interrompere quel bacio - il solo bacio che non sarebbe finito, mai. E poi era entrato dentro di lei, ed erano impazziti insieme - era tutto perfetto, tutto così dannatamente logico, e dolce, ed inevitabile.

Nel cielo non volavano pipistrelli, notò lei, quella sera. E non provò nulla.
Il suo intero essere era devastato e rinato, e l'unica cosa che lei riuscisse a fare era...
Sorridere.

Saturday 22 September 2012

Belarus, c'est moi

Insane, always madly in love, violent, knife & maidish outfits' lover...
Belarus is me.
(?)

(Belarus from Hetalia, by Hidekaz Himaruya)

Wednesday 19 September 2012

Nihil

Lei se ne è andata.
La musa se ne è andata, e io non avuto il tempo per salutarla.
Svanita nel nulla, si è riassorbita dentro di me. 
Un fiore era strisciato fuori dal mio cuore, era sorto con rami d'edera che avviluppavano la gabbia vuota dove soffiava una volta il mio spirito - e ora tutto è cenere, cenere sterile cui sono tornata. 

Non ho più l'ispirazione.
Cioè, sono inutile.
Inutile e persa, scomposta in mille e mille particelle, un pulviscolo allergenico che non riesce a rifarsi corpo.

Non ho di chi scrivere 
- perché non sono più niente
- nessuna passione, che mi faccia tremare di me.

Riposa In Pace, remoto caos ormai composto.

Tuesday 11 September 2012

crush /on/ you

Odio,
Amore,
Desiderio
- desiderio di uccidere.

...vorrei staccarti la testa,
E baciarti le labbra
- che ancora sanno di vino e di sangue.


A Orfeo.

Saturday 1 September 2012

La fredda luce di un'alba d'inverno

“La fredda luce di un’alba d’inverno”

"La fredda luce delle albe d’inverno
Acceca e scalda i cuori spezzati
Dopo una notte trascorsa a sognare
Lidi lontani, e lontani ricordi.
L’acqua fresca dei fiumi accarezza i prati coperti di brina,
E il gelo non è forte abbastanza
Da impedire a quella forza di scorrere ancora.
La solitudine, buia e noiosa,
Oscura i cuori ma non la mente
E nelle illusioni della primavera che viene
Sogno il ritorno di un’infanzia felice.
Dove sono gli amici, la gioia, il calore?
Ogni risposta si nasconde nel silenzio,
Coperta dall’algido manto della candida neve.
Sotto quei fiocchi si cela qualcosa          
La speranza che solo il tepore di Zefiro disgelerà
Aspetto il disgelo e che il cuore mi bruci
- abbastanza per distrarmi dal bianco spettacolo del sole sulla neve,
Rimpianti e l’odio non valgono più...
Servirà qualcosa di molto più forte.

Cassie si svegliò, e attorno a lei vide solo il bianco delle pareti, e oltre il vetro della finestra la neve. In quella asettica solitudine in cui era relegata, le poesie che da piccola aveva composto la perseguitavano come Erinni vendicative. E Cassie non era forte abbastanza, per sfuggire a quei demoni venuti dall’Inferno.
“Vogliono trascinarmi giù con loro?” si chiese, aggiustandosi la crestina tra i boccoli biondo cenere. Il suo viso, riflesso pallido nel vetro, era malinconico e stanco. Ogni notte, un incubo come quello la perseguitava nel sonno, e i suoi lunghi, gelidi artigli continuavano a schiacciarle il cuore anche dopo che si era svegliata. Sentiva i battiti cardiaci trafiggerle il petto come pugnalate, e a stento riusciva ad alzarsi da quel letto sfatto e morbido senza scoppiare in lacrime di dolore.
Cassie si mise a posto la divisa, tirò su i calzetti bianchi fino a poco sotto il ginocchio, diede un’ultima occhiata a quelle lenzuola e spalancò la finestra.
La neve aveva assorbito in sé tutto il mondo esterno, e oltre al davanzale Cassie vedeva semplicemente bianco. Era completamente sola, ora. Sia nella casa, sia nel mondo. Non un rumore, il fruscio del vento, gli echi del traffico nella strada vicina, era tutto scomparso, avvolto dal candido abbraccio dell’acqua gelata.
Cassie saltò giù dalla finestra, e atterrò dolcemente su un grosso cumulo di neve, scivolato dal tetto durante la notte. Si voltò in una piroetta, richiuse come poteva la finestra (era a piano terra, il balzo non aveva comportato alcun rischio), e se ne andò. Cassie stava scappando dalla sua prigione, da quel Castello infestato in cui era stata nascosta, come schiava, troppo a lungo.
Vi era corsa dentro qualche mese prima, per fuggire al suo presente, perché la delusione di vivere era troppo forte, ma subito avrebbe dovuto pentirsene. Era stata aggiogata, costretta al lavoro e al silenzio, senza gioie e senza pause. Non si poteva certo permettere una camera, aveva lasciato casa sua con una penna e l’indirizzo di quell’albergo, null’altro: quindi aveva dovuto supplicare per un po’ di ospitalità, e aveva così trovato un impiego non retribuito. Cameriera full-time, senza stipendio, come una Cenerentola in un palazzo di sadici.
Tre mesi erano trascorsi per lei tra scope, spugne e lenzuola da cambiare, ma Cassie li aveva vissuti con serenità, senza lamenti, perché così almeno le era stato impedito di pensare. Durante il giorno, nelle sue fatiche di servetta, non aveva mai trovato le forze per formulare un’idea complessa, una speranza, un sogno ad occhi aperti. Mentre lavorava al massimo della concentrazione, per compiacere clienti e odiose colleghe, Cassie riusciva solo a conservare nella sua testa l’immagine del suo letto sfatto e morbido, a sentire il bisogno di stendersi sopra di esso, a desiderare un’ora per dormirci.
Era perfettamente anestetizzata dal provare le sue comuni emozioni. Quei sentimenti che prima, quando ancora era libera, l’avevano spinta all’orlo della disperazione, che avevano inquinato la sua coscienza in ogni momento del giorno, che l’avevano distratta da ogni evento felice con sensi di colpa e rimorsi, in quelle squallide giornate d’albergo non riuscivano più a fare breccia dentro di lei.
Cassie si rendeva conto, nella remota profondità del suo inconscio, che quell’apatia doveva essere considerata una grande conquista, e forse, dentro di sé, inconsapevolmente, ne godeva.
Ma la notte, ogni notte, appena la sua testa sprofondava nel cuscino, circondata da quella mesta aureola di boccoli, il passato passava a trovarla, e le affollava la mente di incubi e crudeli considerazioni. Nella notte Cassie si rendeva conto, consciamente purtroppo, di essere fuggita dalla sua vita, di aver scelto la strada più facile, e di aver lasciato dietro di sé in quella fuga una lunga scia di cadaveri, in pasto agli avvoltoi. Nella sua tormentata fase REM, Cassie vedeva il volto rigato di lacrime e il cuore lacerato di tutti coloro che aveva abbandonato, e desiderava morire.
Ma poi si risvegliava, e in pochi secondi quel dolore lancinante si faceva sempre più pallido, evanescente, e svaniva. E a Cassie non rimaneva che una folta lista di mansioni da sbrigare.
Ora, colle scarpette nere laccate sprofondate nella neve, e il freddo che le pungeva le guance e le bloccava le mani, Cassie sentì la trionfante esultanza di chi finalmente espia il proprio peccato.
Il peccato di Cassie era stato l’egoismo.
Era vissuta pensando di essere sola, e sola sarebbe rimasta, morendo congelata mentre la vita di chi un tempo colla sua fuga aveva ferito sarebbe tornata felice e calda di buoni sentimenti, col ritorno della primavera. Cassie sorrise, annuì fra se e se all’idea di punirsi per sempre, e continuò a camminare nella neve, piano, in modo che il gelo l’avvolgesse meglio, e rafforzasse man mano sempre più la sua stretta.
Quella poesia, che aveva scritto a caso, dopo un pomeriggio passato a litigare colla sua “migliore amica”, alle medie, ricominciò a rimbombarle nella testa. Era come una forte emicrania, o una sinusite nella sua forma peggiore. Ma Cassie l’accolse felice, perché era anche quello un rito che avrebbe accelerato la sua espiazione.
Era scappata di casa senza un motivo valido, senza essere stata maltrattata, così, perché la depressione la stava schiacciando. Cassie se n’era andata per scoprire se cambiare aria e conoscenti avrebbe alleggerito la sua anima da quella nebbia d’accidia, senza ricordarsi che chi abbandonava l’amava indiscriminatamente. Non aveva più saputo nulla, da quando aveva superato la soglia di casa, a proposito della sua famiglia, dei suoi amici, di chi le era stato intorno per diciassette anni, da quando era nata. Non si era più ricordata nulla, a proposito della felicità che aveva sempre sentito, in quella cittadina da cui era scappata.
Aveva considerato solamente la propria, ingiustificata malinconia, e in base al suo egoismo distratto aveva rovinato la vita a così tante buone persone. “La devo proprio pagare”, pensò, piroettando tra i fiocchi di neve che d’improvviso erano ricominciati a cadere.
Alzò gli occhi al cielo. Era d’un bianco uniforme e anonimo, che un tempo l’avrebbe nauseata. Un tempo, Cassie aveva avuto una profonda paura del vuoto, del silenzio, del nulla. Ma ora desiderava solo perdersi in quella pace senza complicazioni, e non sentire più niente. Cassie era ancora profondamente egoista.
Si sedette su un tronco tagliato, largo abbastanza da farle da trono, e aspettò. Non aveva ancora incominciato a congelare, ed era per questo un po’ delusa.
Incrociò le gambe nella posizione del loto, e cercò lo zero mentale. Cassie era cambiata, e dal giorno della fuga cercava il nulla in tutte le sue forme e dimensioni. Ma non capiva che, in quanto nulla, non sarebbe mai stato raggiungibile, per nessuno. Cassie era ancora profondamente ingenua.
Seduta sul tronco da parecchio, interminabile tempo, stava cominciando ad annoiarsi. Pensò di contare i fiocchi di neve, ma si vergognò presto di un’idea tanto irrealizzabile. Pensò di dormire, e lasciarsi sorprendere dal gelo nel sonno, ma all’improvviso si vergognò di se stessa.
Piangendo a lungo per il disprezzo che covava contro se stessa, Cassie arrivò ad ammettere che morire per sfuggire a una vita che lei stessa aveva rovinato fosse un piano egoista, la via più facile per liberarsi dalle responsabilità.
In quel momento, le parve di vedere nel cielo bianco un punto d’azzurro, ritagliato dal calore dei raggi del Sole.
Si alzò di scatto dal tronco, e cercò la via per arrivare alla strada. Lì avrebbe chiesto un passaggio, si sarebbe difesa dagli sconosciuti e dai malintenzionati, e sarebbe tornata a casa. Oppure, avrebbe chiesto di poter chiamare i suoi, e poi sarebbe tornata. L’avrebbero voluta indietro? Cassie ne dubitava.
La sua divisa da cameriera era bagnata da tutti i fiocchi che le si erano sciolti addosso, e l’aria fredda cominciava a farle davvero male. Cassie affrettò i passi, e trovò il sentiero verso la strada. All’alba qualcuno doveva averlo spalato e ricoperto di sale, perché ora era perfettamente distinguibile, e per nulla scivoloso. Cassie ringraziò mentalmente quell’anima buona, e continuò a camminare tremando.
Tossì, e riaprendo gli occhi dopo il colpo di tosse si ritrovò in mezzo alla strada. Indietreggiò per evitare un’auto che passava di fretta, e sedutasi sul bordo tra neve e asfalto, aspettò un passaggio più caritatevole.
Tuttavia, nessun’auto passò più, e Cassie riprese a sentire una sensazione che non la visitava da tanto, tanto tempo. Cassie si riempì nuovamente d’angoscia.
Il cuore le si strinse fino a farle male, e comiciò a batterle nel petto forte come al risveglio, dopo l’incubo della poesia sulla neve. Quelle parole malefiche le ricominciarono a ronzare nella testa, fastidiose e rumorose come uno sciame di mosche, e a Cassie, pronta alla resa di fronte a tanta ansia, mancò completamente l’aria. Il mondo attorno a lei si offuscò, si scolorì del tutto, e Cassie cadde svenuta nella neve, mentre il gelo la prendeva fra le braccia, pronto ad esaudire il suo desiderio passato.
Priva di sensi, Cassie era prigioniera dell’Erinni. Le parole piene di disperazione che aveva scritto quattro anni prima ora risuonavano come un’eco di guerra nella sua testa disarmata, e i ricordi tristi, le delusioni che aveva inflitto a chi le voleva bene, la consapevolezza della sua colpa le bruciavano dentro come piaghe infiammate. Cassie, tra l’incoscienza e la coscienza, si ritrovò nel limbo, paralizzata dal desiderio di uccidersi, e il bisogno di rendere felici le persone che l’avevano resa felice. L’uno escludeva l’altro, il primo appariva profondamente crudele, l’altro completamente irrealizzabile, e Cassie soffocava nell’indecisione e nel rimorso, senza avere la benché minima idea di quale fosse in quel momento la cosa giusta da fare.
Cassie ricominciò a piangere, senza neanche rendersene conto, e risvegliandosi tra gli infermieri in ambulanza si accorse di aver scelto la vita.
Poi sbatté le ciglia, e vide che in effetti non era in ambulanza, in corsa sulle strade ghiacciate… era semplicemente nel suo vecchio ospedale, dove aveva passato tante giornate, avvolta da ruvide coperte d’un candore abbacinante. E quella fu l’ultima volta in cui le illusioni le mascherarono la realtà.
Cassie sorrise salutando con un cenno stanco un’infermiera che passava in quel momento nel corridoio, e premette la testa sul cuscino. La fronte le pulsava, così l’accarezzò. Da quanto sentì, doveva essere stata accuratamente fasciata. Sentì sulle dita il profumo del sangue che in passato le era stato tristemente familiare, e capì che probabilmente si era ferita, cadendo nella neve. Scrollò le spalle. Poco importava, era comunque viva e… Una cicatrice che ricordasse a vita la pena che aveva espiato, sarebbe stata una buona cosa.
Si voltò verso la finestra, una finestra ampia, luminosa, dal vetro spesso (per impedirle di fuggire, pensò sorridendo con un pelo di vergogna mista a un senso di liberazione che lei stessa non sarebbe riuscita a spiegare). Fuori, aveva smesso di nevicare, e il sole brillava nel freddo cielo azzurro, libero da nuvole. Quell’azzurro limpido, nitido, sembrava a Cassie insieme distante, superbo e bellissimo. Le dava speranza, anche se ancora non sapeva perché.
Un senso di attesa carico di entusiasmo e gioia la invase, e presto Cassie capì perché.
Alla porta, un volto amico. Il volto che amava sopra ogni altra cosa e persona e concetto. Il volto di colui per il quale aveva sofferto e gioito più di ogni altro. Amare non è una stupidaggine a senso unico, e solo grazie a lui Cassie l’aveva capito nel profondo.
Era Lucien, il ragazzo con cui Cassie si era indissolubilmente legata.
Sorrise amaramente, e si avvicinò piano al suo letto, solo dopo che lei gli aveva fatto segno di entrare.
Ora Lucien era così triste… Cassie sapeva che era stata colpa sua. Che doveva riparare, curare la ferita che gli aveva inflitto. E il rischio di trovare questo compito insormontabile, per Cassie, era sempre stato estremamente forte.
Ma aveva scelto la vita, e ora doveva dimostrarle di meritarsi la salvezza. Sorrise a sua volta, combattendo contro se stessa per non lasciarsi chiudere la gola dai sensi di colpa.
Non poteva arrendersi. Non si trattava più della sua vita.
Ora era la vita di un’altra persona, nelle sue mani.
Quella stessa vita che avrebbe voluto condividere, fondere colla sua, facendo di due esistenze una… un’unione che aveva sempre temuto sarebbe stata dolorosa, fino a quando lei non fosse radicalmente cambiata. Prima di vivere con lui, avrebbe dovuto uccidere la disperazione che le attanagliava il cuore e le oscurava la mente. E forse, risalendo dal baratro dopo aver cercato e cacciato la morte, ora Cassie era riuscita a migliorare. Ora era libera, ferita nel corpo e non più nel cuore, ancora abbastanza stordita dagli anestetici da poter affrontare la sua vittima senza essere frenata da indecisione e lacrime… Cassie si sarebbe data da fare, e l’avrebbe liberato dalla profonda tristezza in cui l’aveva egoisticamente gettato.
Cassie fece un respiro profondo, e si stupì di quanto bella fosse la sensazione di sentire l’ossigeno fluirle nei polmoni. Il viso di Cassie s’illuminò di vita.
Cassie era finalmente tornata alla vita, e il solo pensiero la rendeva euforica. Non aveva mai sentito quella sensazione. Era inebriante, e talmente intensa da darle le vertigini. Era come la luce dell’alba d’inverno, quando il sole si rifletteva sulla neve, e le inondava il viso di pizzicante calore.
Cassie era felice perché aveva finalmente la possibilità di espiare la sua colpa, e chiedere il perdono.
Si voltò verso di lui, e con gli occhi bagnati di lacrime chiede semplicemente:
-Scusa.
-Ora te ne andrai di nuovo?- chiese lui, freddo come il cielo.
-No. Scusa.
-Scuse accettate.- rispose, e se ne andò.

Cassie si alzò senza pensare dal letto, e come un automa scese sul pavimento lucido, a piedi nudi, con addosso solo un camice spiegazzato. Sembrava indossasse le vecchie lenzuola dell’albergo, la sensazione sulla pelle era la stessa. Ma dentro di sé, Cassie sentiva che non era più momento di arrendersi. Non poteva cedere di nuovo a se stessa, e riposare in quel sepolcro sterilizzato avvolta nelle bende come un’antica mummia. Lei non era morta, né nello spirito, né biologicamente, e c’era un motivo. Cassie voleva credere che l’Universo l’avesse lasciata in vita per liberare il suo amato dal male. Quel male che lei stessa gli aveva provocato, e che continuava a tenerlo prigioniero. Cassie se n’era accorta subito. Lucien, l’uomo che amava, era perso nella palude della disperazione senza energie da cui lei era fuggita da poco.
Ma non c’era modo di scusarsi e ottenere perdono, non c’era azione che potesse riparare un danno inferto tanto tempo prima. Ormai quel dolore era radicato dentro di lui, e se anche la sua testa avesse capito, le ferite nel cuore non si sarebbero per questo rimarginate. Cassie non sapeva come fare, e man mano che lo seguiva, in silenzio, per i corridoi dell’ospedale, senza accorgersi degli altri pazienti, e degli sguardi straniti nei loro occhi, il senso di impotenza che l’aveva frustrata tempo prima ricominciava a farsi sentire. Cassie si stava perdendo d’animo? Quella lotta contro se stessa, quel miracolo nella neve, erano stati inutili allora? Cassie non poteva crollare di nuovo, e lo sapeva. Prima di abbandonarsi di nuovo alla malinconia, doveva salvare da essa lui. Poi, con la propria tristezza, se la disperazione fosse tornata, avrebbe tormentato solo se stessa, e nessun altro avrebbe più…Cassie s’interruppe. No, dopo di lui c’erano i suoi genitori, i suoi parenti, gli amici… Sentì una familiare vertigine. C’era ancora così tanto da fare!
E se non si fosse data subito da fare, avrebbe dovuto aspettare ancora parecchio, prima di potersi sentire veramente libera. Ottenendo il perdono di Lucien, però, sarebbe tornata alla pace di un tempo, una pace che quasi non riusciva a ricordare, ma che sentiva ancora, e che la rasserenava. Se lui l’avesse perdonata, Cassie sarebbe riuscita a tornare alla vita passata, ma con un nuovo spirito, una nuova serenità.
Non riuscì neanche a pensare cos’avrebbe fatto, se lui non l’avesse più voluta sentire.
Corse fino a raggiungerlo, lo abbracciò da dietro, e strinse fino a quando lui non fermò i propri passi.
-Scusa.- disse ancora. Una parola, una richiesta. Un risarcimento non sufficiente, per un danno così grave.
-Mi hai ferito. Mi hai abbandonato. Ma è colpa mia, e sono io a doverti chiedere scusa.
Lui si voltò. Scansò il suo abbraccio, e la vide davanti a sé, piccola e pallida come il fantasma di una fata, illuminata da una luce chiara, come di luna. Quegli occhi, che aveva visto sgranarsi meravigliati così tante volte, ora lucidi, spalancati davanti a lui, come quelli di un cucciolo.
Occhi nocciola, supplichevoli e lustri. Sapeva che lei era pentita. Che non l’aveva ferito di proposito. Sentiva che era cambiata. Ora era libera, serena…e non poteva essere lui a privarla di una pace così duramente conquistata. Lucien soffriva ancora, ma era naturale, e capiva che si trattava di semplicemente di aspettare. Doveva aspettare, e quella tristezza, quella delusione sarebbero sbiadite, e avrebbero perso la loro asprezza.
Se Cassie fosse rimasta, Lucien avrebbe ricominciato a sorridere per lei.
Non era mai riuscito ad odiarla, anche se aveva a lungo odiato se stesso per questo. E per non essere riuscito a trattenerla, a renderla felice in modo che non se ne andasse. Ma non era stato buono abbastanza, paziente abbastanza, straordinario abbastanza per curarla.
Ma ora aveva la possibilità di rimediare. Se fosse riuscito a convincere Cassie, dimostrandole che l’aveva perdonata, dandole la possibilità di placare l’odio che da sempre covava verso se stessa, avrebbero fatto insieme il primo passo per essere felici. E liberi dal passato.
Sorrise, pur con una fitta al cuore sorrise, commosso dal sorriso di Cassie, così puro e tenero, da bambina. Avrebbe voluto parlare, ma non sapeva cosa dire.
Si avvicinò a Cassie, e Cassie rimase ferma, ad aspettare. Non scappò.
I loro cuori presero a battere all’unisono, intensamente, espandendosi di gioia nei loro petti.
L’abbracciò, e la strinse forte a sé, più forte di quando fosse riuscita lei poco prima. Lucien sentiva il cuore esplodergli, lei sciogliersi, finalmente. In quel momento, entrambi diedero l’addio ai loro tormentati “Io” passati, e cominciarono a sorridere davvero. Per sempre, insieme."


                                                                                                    Costanza De Cillia
             (racconto partecipante al premio Fiurlini, XI edizione, 2010)

Elgarla dei matti e degli autolesionisti

Voglio solo un altro buco nel braccio,
Una nuova cicatrice,
Che sia più bella di te
- una piccola, graziosa ferita
Da velare con un bendaggio stretto,
Da sentirmi sempre addosso,
Il segno
Che nonostante il pizzichio del dolore,
La vita continua,
Ogni giorno,
La stessa.

Bloccami i polsi,
Stringili forte colle corde
Le catene
La tua morsa,
Tappami la bocca e legami,
Non voglio parlare - i miei occhi
Ogni tanto brilleranno
Della tristezza che amare
Mi fa crescere e nascere dentro
- là dove
Sei tu,
Nell'antro buio che ha scavato dentro
Di me quel pugnale, la falce
Di Cupido sterminatore.

Ogni volta che respiro
Il cuore tuo tuona
Contro di me,
Batte senza di me,
Indifferente,
Lo sento,
E nel petto le fitte
Stellano i miei giorni
- Elgarla da Utinberg protettrice
Rea dei tonti e dei cuori infranti
- principessa deviata
Che stringe al seno la Morte
- ma teme troppo,
Per poter giacerci insieme.

...sciocca
Intensità da poeta
- che altro dona, se non
Generare lutti?
:
Una nuova speranza
Incompresa, una tacca
Sulle macerie dove un tempo aleggiava
Un'anima infestata, e ora
Rimangono solo pittoreschi rintocchi
D'ora sorda, e di noia.

[l'amore è inutile,
Fin qui siamo tutti d'accordo
- che bisogno c'è
Di continuare a denigrarlo?]

Par(anoi)e

Ricomincio a scrivere, 
E non riesco più a fermarmi;
Ricomincio a scrivere,
Per tenere insieme
I miei piccoli, fradici pezzi
Umidi di lacrime, di pessimo alcol,
E di te.

Messere, chiami un dottore
- un salasso contro il salasso
Che pensarti, ogni volta,
Svuota me e nutre
Il tuo ego
Che dire ipertrofico sarebbe rimpicciolire.

Forse ciò non ha senso,
Ma devo continuare a dirlo,
O mi scaricherò
E in quel grigiore, laggiù, 
Vorrò solamente dormire
- in quel grigiore, lassù, dove tu
Sei solo una pallida larva
Che non riesco a pensare,
Perché mi striscia subito via.
... cosa 
Succede,
Quando sono nella palude dell'umore?
Dove finisci, tu che colle tue spire m'invischi?
... una voluta, uno sbuffo di fumo
- e dimentico te,
Cieca vedo solo
Me stessa.

Che c'è in questo mondo
Di sospiri e virus cuoriformi
Di più terribile e marcio
Che odiare se stessi e volere l'anima
Gemella?
Ecco perché ti odio, perché ti amo e soffro
- tanto di averti, quanto di non poterti tenere.

[continuo a scrivere, ma sento
Di fare un torto.
Non so a chi
- sento solo l'orrore.]




Le nozze di Marte ed Ecate (dolore e altri rimedi)

L'uscio sull'abisso
- è stato darti l'anima,
Stracciarla e poi offrirtela
In cambio di un bel niente
- tamponare colle briciole i tagli
Del tuo io bucherellato
(col sangue, sì è probabile,
Ti è defluito il cuore).

Sei nobile, tu dici
Ma sol per il tuo casato
:
Il nostro matrimonio,
Un dramma che mai avverrà.