Cercando nel labirinto degli specchi

Monday 31 December 2012

D'or (bonne année ma fille)


Chi l'avrebbe mai detto... che sarebbe bastato un uomo in fasce e catene a restituirmi la serenità... in una tempesta di piume...
Lui sbattè le palpebre e piegò la testa di lato, soffiando via il fumo, nella direzione opposta alla mia.
Le vie del Signore sono misteriose e infinite, no? disse, imperturbabile e un poco annoiato.
Madeleine tornò ad abbassare lo sguardo sull'immagine appoggiata sul tavolo, in bianco e nero.
Ha gli occhi d'oro, disse sommessamente, probabilmente fra sè e sè.
Come te, dissero poi lui e lei, insieme.
Si guardarono e Madeleine scoppiò a ridere, con dolcezza.
Mesta dolcezza.
Che c'è? esclamò allora lui, fingendosi offeso. Adesso, ora, proprio in questo momento... i tuoi occhi, li vedo dorati, biascicò, disegnando con le dita un vortice confuso davanti al viso della ragazza.
Lei si sporse verso di lui, e molto lentamente disse: Invece io... ti vedo sempre dorato.
Lo disse con grande solennità, l'aria seria di una profetessa.
Jordan la fissò a lungo, come stregato.
Poi lei gli ammiccò, e fu lui a ridere allora.
I lampi di mille colori, nel cielo blu notte, li riportarono giù nella realtà.
Buon anno, Jordan, mormorò Madeleine, senza staccare gli occhi dai suoi, che brillavano.
A noi, cara, rispose lui, porgendole con uno svolazzo galante della mano la sigaretta.



miss Pamela & Keith Moon

  
   Donnie non mi chiamò per tre giorni di fila e lo fece nel momento sbagliato, perché arrivarono in città gli Who, e Keith Moon fece irruzione nella mia vita come un fuoco d'artificio, reclamando attenzione tutta per sé. Andai al concerto-festa degli Who, e poi Keith tornò a casa con me sorridendo maliziosamente mentre si toglieva in frette e furia l'abito di velluto Granny's e finiva dritto nel mio letto. Non avevo previsto nessun incontro sessuale, ma ero sintonizzata su Tommy, così come ero completamente fatta di crème de menthe e di altre pasticche di mille colori. Ci ricaddi, lo ammetto. E una volta mollato ogni freno inibitore, me la spassai pure, fingendo insieme a Mister Moon di essere varie persone differenti, inclusa una vecchia e ricca signora in cerca di un bellissimo giovane steward, una prostituta che rimorchia un ragazzetto vergine del Connecticut e una scolaretta stuprata da un prete. Wow! A un certo punto, durante quel delirio notturno, Keith cacciò fuori una sordida storia del suo passato che lo aveva segnato profondamente. Pare che una notte in cui era strafatto aveva fatto retromarcia con la sua Rolls-Royce e aveva investito il suo roadie, uccidendolo sul colpo. I poliziotti avevano cercato di accusarlo di omicidio colposo, ma lui era riuscito a cavarsela malgrado pensasse di meritare il rogo. Mentre stava facendo la parte del prete, Keith crollò e scoppio in lacrime. Inutile dire che la cosa migliorò la nostra improvvisazione, e io gli accarezzai la fronte delirante e stanca mentre si agitava in preda a masochistico terrore. Con la stessa rapidità con cui era scivolato nell'autodisprezzo, scattò su - il grande ritorno del prete - e portò a termine il lavoro sulla scolaretta tremante.
   Queste piccole improvvisazioni frizzanti andarono avanti fino a dopo l'alba e, mentre Keith si liberava della mia biancheria intima da gattina e delle mie scarpe di pelle di leopardo che aveva indossato, la piccola Moon annunciò che aveva bisogno della sua colazione e io strisciai letteralmente attraverso il patio e la lavanderia fino ad arrivare in cucina per preparare toast alla cannella.
   Donnie aveva chiamato mentre ero al concerto degli Who, insistendo affinché Gail gli dicesse chi, come, dove, perché e quando. Lei era stata evasiva per coprirmi. Da lui c'era Mercy, che era passata a trovarlo, e lui le passò la cornetta. Mercy chiese dove fossi e Gail rispose: «È al concerto degli Who, ma non dirlo a Don». All'insaputa di Gail e di Mercy, Don era sull'altra linea e sentì ogni maledettissima parola.
Mentre cercavo di cospargere la quantità giusta di cannella sul toast di Dweezil, spuntò Gail e, proprio quando stavo per inizire a raccontarle della folle nottata che avevo appena trascorso con il Re dei Maniaci, Keith entrò in cucina con passo baldanzoso e su di giri. Dopo essersi spupazzato un po' i bambini e aver bevuto varie tazze di tè, chiese a Gail se per favore poteva portare la tata a fare shopping. Mentre stavamo per uscire, Gail ci raggiunse sulla veranda e annunciò: «E comunque, ha chiamato Donnie». Durante tutta la nostra gita da Tower Records, mi domandai che cosa avesse potuto dire Gail a Donnie, che cosa avesse detto Donnie a Gail, e se qualcuno potesse aver sbirciato dentro la nostra finestra e avesse visto Mister Moon con i miei tacchi a spillo.
              
                                                                                                                           Pamela Des Barres


Pamela Des Barres, Sto con la band, Alberto Castelvecchi Editore srl, 2006, p. 258-259


Saturday 29 December 2012

Per te una libbra di carne mia insanguinata


Skip:

due grandi occhi azzurri,
                         celesti,
                         blu come curaçao ghiacciato
    - velati e malinconici
                                  con dentro il cielo
                                  infinito e l'oceano.
Gemme di zaffiro fatte risplendere dai raggi sottili del cielo d'inverno,
Sul viso esangue di angelo in esilio
                             vergine folle spettro di ideali
                                                               annacquati da lacrime dolciastre
                         di un'adolscente asociale
                                 
così pigra da amare
                                                                                                     solo ciò che sa di non poter raggiungere.

Sono assolutamente incapace di creare qualcosa di buono per te, per quei tuoi occhi di Beatrice urania

                                                                                              - morirai anche tu, di peste
                                                                                             ?
                                                                                               Griderò che il tuo nome celava
                                                                                                  il nome di Dio, e che nei tuoi occhi
                                                                                                   io vedevo la luce
                                                                           
                                                                                                    ?

Almeno non tagliare via il pallido ricordo di me
Dai tuoi solitari giorni di studio.


                                                           

Friday 28 December 2012

Requiem in blu


Mi piacciono le forbici, sussurra.
Immerso fino alla vita in un mare di ghiaccio, guarda davanti a sé, con gli occhi offuscati e socchiusi.
Tu ti avvicini, e affondi la mano tra i cubetti. Sembrano di vetro, ma sono dannatamente freddi.
Mi piacciono le forbici, ripete lui, poi tace.
Sprofondato nella vasca, col ghiaccio che lo avvolge, rimane perfettamente immobile.
Non sembra neanche respirare.
Tutto il suo corpo è pietrificato - non sbatte neppure le palpebre.
Tu ti avvicini, e in ginocchio ti adagi accanto a lui.
Non osi entrare, là dentro non c'è spazio per te.
Lui sospira un attimo, ma non per poi morire.
Mi piacciono le loro lame... e il modo fluido in cui... tagliano... sussurra lui, e i suoi occhi si accendono di blu. Un blu mirtillo gelato che s'irradia davanti a lui come l'aurora boreale.
Il tutto in una pace che non ha luce, o calore.
Ti sporgi verso di lui, arrivi vicino abbastanza - per vedere che nel suo petto c'è un bello squarcio profondo.
Sulla sua pelle chiara, come carta di riso esangue, sono stati tracciati perfetti contorni cuoriformi. E proprio dal suo torace, tra la spalla e lo sterno, è stato asportato il cuore, a uno cui ormai non serve.
Adieu.





Wazzup, doc?


Ti svegli dopo una notte insonne, tra le lenzuola troppo stropicciate, e zuppe di sudore.
Devi bruciare quel letto, a questo punto è solo un focolaio di contagio.
Non hai chiuso occhio, se non per qualche minuto - una manciata di secondi ogni tanto, nel corso di una lunga notte inconclusa.
Il buio è ancora lì dentro. Anche se fuori, oltre il vetro spesso delle finestre antiproiettili, il sole splende con le sue abbaglianti lame di luce.
Non vuoi uscire. Non puoi più uscire.
Il bianco ti incenerirebbe, lo senti.
Scosti con disgusto le coperte, liberandotene. Resti in mutande nella penombra della camera.
Il materasso ora è troppo molle, lo stesso materasso che per tutta la notte è stato duro e freddo come la tua lapide.
Ti guardi in giro, svogliatamente, perché devi farlo - dovresti cercare i tuoi occhiali, ma in fondo trovarli per te non cambierebbe niente.
Hai i boxer a smoking, che classe. Quel bianco e nero da pinguino risalta e esalta il tuo corpo quasi diafano. Fa impressione, quanto sei pallido - potresti tranquillamente essere morto da un po', e lo sai.
Porti le mani alla cicatrice, pensieroso.
Sì, è davvero strano, che uno come te sia ancora vivo.
Lasci le dita ai bordi del vecchio taglio, come Pollon quando sorride.
Sembra talco ma non è - serve a darti l'allegria, canticchi tra te e te. Eggià.
Ti concedi un sorriso stirato, e guardi lo specchietto ricoperto di polvere sul tuo comodino. E dire che una volta avevi la decedenza di fare certe cose in bagno, Doc.
Adesso neppure lo zucchero a velo ti fa venire la voglia di alzarti.
Dev'essere per questo che sei diventato così magro.
Questo, oppure le tue continue iniezioni.
Credi di essere l'incarnazione perfetta dei Pesci, vero Doc?
Poi dai un'occhiata alla porta, e quella ti appare come una minacciosa grata fatta di spesse sbarre. Come in una prigione, o in un tombino. O in qualche bizzarra catacomba.
Ripensi a quello che ci troveresti dietro, alla Corte dei miracoli che attorno ti sei attirato.
A quella ragazza, che vive e muore per te.
- ed ecco che arriva il primo conato.
Tutto quell'amore... il suo amore... ti riempie il cuore di nausea.
Non potrai mai tornare a uscire da qui.
Sepolto vivo nel blue.

Thursday 27 December 2012

pourquoi


Nessuno ha mai scritto o dipinto, scolpito, modellato, costruito o inventato, se non, di fatto, per uscire dall'inferno.

Antonin Artaud

(da ANTONIN ARTAUD, Van Gogh il suicidato della società, Adelphi, Milano 2010, p. 38)

Take two

Che cazzo ci fai qui? urla una voce dall'inferno, dietro di me.
Mi volto, con gli occhi ancora incrostati di lacrime, e vedo il volto di un uomo a metà tra le ombre e la luce. Le ombre dei vivi, e la luce in fondo al tunnel, però.
La carne del viso gli è bruciata, è come corrosa, spolpata fino all'osso in certi punti, e il dolore dev'essere tale da far sembrare la morte per tortura un'oasi di pace. Metà faccia è andata, e l'altra metà... è quella di Harvey Dent.
Lui mi si avvicina, camminando piano perché tanto ha una pistola, e carica, ci scommetterei.
Rimango appiattita contro il bordo del tavolo operatorio, con la disperata consapevolezza che c'è J crocifisso dietro di me.
Tu sei... inizia Dent, o ciò che rimane di lui, arrancando verso di me. Ha una certa eleganza nel muoversi, ancora, nonostante le ustioni e la sofferenza che gli portano. 
...la sua... ragazza?! chiede, ma suona più come un'accusa, che una curiosità.
Magari, qualcun altro avrebbe pensato. Io stessa, forse, in un altro frangente.
Ma sento la violenza nelle sue parole, e so che ha bisogno di metterla interamente in pratica.
Un No! mi esce di bocca, spontaneo. Carico di sorpresa e di mal celato rimpianto.
Ho sempre saputo che J semplicemente non può amare.
Dent è a un passo da me, e si ferma. Mi guarda negli occhi, e vedo che mi crede. Forse.
Allora lascia... ansima, con la voce rotta dalla rabbia e dal dolore.
...che io finisca ciò che dev...
No! urlo di nuovo io, interrompendolo. Allargo le braccia per nascondergli J, e bloccarlo.
Mossa inutile, perché lui ha l'odio e la pistola, ma lo colpisce.
Mi guarda di nuovo in faccia, e stavolta con sincera sorpresa.
Perché? Allora stai mentendo, sibila, avvicinando pericolosamente il suo viso al mio.
Si sente ancora l'odore di bruciato.
Come fai... a difendere un mostro? chiede poi, tremando di rabbia.
Nei suoi occhi azzurri vibra tutto il dolore del mondo. Era il cavaliere bianco... e J l'ha fatto dannare.
Io... non so mentire, sussurro. Mi è addosso, tanto che la cenere del suo completo bruciacchiato inizia a farmi lacrimare gli occhi. E tu... tento il tutto per tutto, l'ovvia banalità. Tu sei l'eroe di Gotham. Lui uccide. Vuoi cominciare a uccidere anche tu?
Dent mi afferra il polso, con la mano libera, e lo stringe fino a farmi male. Potrebbe gettarmi via, in un attimo, e finire ciò che con J ha iniziato.
Ho gli occhi carichi di lacrime. Ho paura - che riesca a uccidere il Joker.
Poi una luce diversa attraversa gli occhi di Dent, in un bagliore fioco.
Una lacrima mi scivola giù lungo la guancia - le altre le riesco a fermare.
Sono... orribile, vero?
Sembra quasi... fragile.
Nella sua voce riconosco qualcosa. Quel disprezzo che io... nutro verso me stessa.
Non lo dice per farsi compatire.
Lo dice perché l'ha sempre pensato.
Allora guardo, veramente, per la prima volta, il suo viso.
I suoi occhi sono lucidi per il dolore che gli sta attanagliando la carne. Ma quello che per cui sta soffrendo, quello per cui vuole uccidere... è il male che gli corrode il cuore.
Rachel, realizzo, di colpo. Dev'essere successo qualcosa a...
E poi capisco. J ha fatto morire Rachel.
Non riesci neppure a guardarmi e parlare, riprende Dent, e mi fa risvegliare.
Lo guardo in viso e mi sento spezzare l'anima a metà.
Non riesco neppure a parlare, è vero.
Riesco solo a guardarlo negli occhi, dimenticandomi perfino di respirare.
Cerco di rispondere, ma la mia voce è flebile. Non riesco a pensare.
Perché lui, Harvey Dent... è perfetto.
Alzo piano la mano, quella che mi ha lasciato libera, e lentamente la poso sul suo viso, tremando. Il pollice poggia sulla sua guancia intatta, e le altre dita... sfiorano appena l'altra parte, per non ferirlo.
Lui rimane fermo, ma la sua stretta intorno al mio polso un po' si allenta.
Continua a guardarmi, come se potessi fargli del male.
Sei... pazzesco, sussurro sconvolta. Ma anche lui lo sa, che la mia non è affatto paura.
Opposta a quelle ferite profonde, la parte del suo viso che è ancora quella di prima... risalta, dannatamente bella. E l'altra... beh, è ciò che il mondo gli ha fatto soffrire.
Perfet... sto per aggiungere, ma potrei indurlo a farmi male. Sono tanto ipocrita da aver paura che potrebbe sfregiarmi, per vendicarsi.
Io sono già come è lui - solo che lo sono dentro, e non lo si riesce sempre a notare.
La sua stretta è più leggera, ora, sì, però mi sembra scottare.
Sento il suo corpo che mi s'impone contro - il corpo di un uomo del genere...
Non voglio ma il viso mi si accende.
E lui mi vede arrossire. Ma si riscuote, e per un attimo il nostro incantesimo è vano.
O menti, o davvero... hai il gusto dell'orrore... d'altronde, visto chi vuoi proteggere... questo qui...
Allora mi lancio contro di lui, e riesco a far cadere la pistola. La sento piombare sul pavimento, mentre Dent riprende il controllo, e mi torna a bloccare.
Mi gira col viso rivolto a J, verso il tavolo operatorio, e con le mani mi tiene ferme le braccia.
Sento ancora su di me tutto il calore del suo corpo.
So che anche lui ricorda il modo in cui l'ho guardato.
Non c'era il terrore che lui si aspettava, nei miei occhi.
Mi abbandono a lui, e spero solo che non ammazzi J.


Wednesday 26 December 2012

Let it blow


Nella vasca, con la schiuma a seppellirmi. Un bicchiere di gin sul bordo.
Odio il gin.
L'acqua è calda, troppo calda, ma ci resto immersa, subisco. Un modo per punirmi, uno vale l'altro.
Quando respiro - o meglio resto col fiato mozzo, e la mia bocca singhiozzando provoca un risucchio, le bolle si sollevano nell'aria, e volano verso l'alto, come se fossero attratte magneticamente da me.
Ma nelle bolle non c'è ferro, o sbaglio? E soprattutto, io non sono una calamita.
Non ho acceso la luce, e l'unica cosa che rischiara il nero totale della stanza è un mozzicone di candela che sta andando spegnendosi.
Anche lui.
Rimarrò qui dentro fino a quando l'acqua non perderà tutto il suo calore, e la schiuma si smonterà, riducendosi a poltiglia saponosa. Non sono mai rimasta così lungo nell'acqua.
La porta scricchiola. Chiudo gli occhi, così proprio non vedo.
Di solito avrei avuto paura... so che i mostri uccidono meglio, nei bagni.
Ma oggi è un giorno un po' triste. Nel giorno gioiglorioso non ci si può preoccupare di nulla.
Ehi, dice una voce vellutata.
Apro gli occhi, ora tocca. In fondo lei è la mia datrice di lavoro.
Oh, scusa, ora me ne vado, cigolo, cercando di esprimere al meglio quanto sia dispiaciuta. Lo sono.
Quando sono giù non riesco mai a dimostrarlo.
No, no, fa lei, calma. Sempre così perfettamente tranquilla. Dentro di lei c'è una tristezza profonda, eppure... per essere una soggetta a gravi attacchi di panico, ha un aplomb notevole.
Posso? chiede poi. I suoi grandi occhi scuri mi studiano il viso, decisi. Decisamente non è imbarazzata, nonostante mi abbia trovata lì nuda e ubriaca.
Non sono ubriaca. Tutti pensano sempre di sì.
Annuisco vigorosamente, per evitare che pensi che la cosa mi dia fastidio. O mi preoccupi. Era forse un modo per farmi uscire dalla vasca più rapidamente? Non colgo le richieste implicite. Non le voglio proprio cogliere.
Allora lei si toglie elegantemente le calze, le spinge lontano con un piede, ed entra. Non si spoglia. In fondo lei è la mia datrice di lavoro.
Si sfila qualche braccialetto - lascia solo quelli in cuoio -, li appoggia tutti al bordo della vasca, sul lato opposto rispetto al mio gin, quindi si siede nell'acqua, davanti a me.
Riesco a contenere appena il fastidio che provo immaginando di avere addosso del tessuto bagnato. Ma su di lei tutto scivola, resta magnifica e non si scompone. Dentro di lei rimane solo e sempre quella tristezza profonda.
Eppure ora il suo viso ha una luce più bella, più serena. Immagino che sia grazie a Mitchell.
Ciao, mormora allora lei, guardandomi.
Ha uno sguardo così da... cerbiatto, in quegli occhi enormi e lucidi color nocciola, che mi dimentico di controllare che tutto il mio corpo sia adeguatamente nascosto dalla schiuma.
Ciao, ripeto, e distolgo lo sguardo, chiedendomi come cammuffare il bicchiere. 
Non ho ancora toccato un goccio del suo contenuto, ma non contribuisce certo a dare una buona impressione di me.
Ma lei passa oltre, se ne frega di un po' d'alcol. 
Giocando con una ciocca di capelli che le si è bagnata, mi spara dritto al cuore, dal nulla.
Che succede, Jordan ti ha violentata?
Divento rossa come un pomodoro a maggio, ma il cuore mi lacrima di rimpianto, quindi sospiro mio malgrado.
No, perché dovrebbe? chiedo, ma il mio tono rivela un po' più delusione di quanto vorrei. Cioè proprio nessuna.
Aisling raccoglie un velo di schiuma sul palmo della mano, e lo soffia via.
Credo davvero che gli piacerebbe scoparti.
Una bolla prende il volo dalle sue dita, e vaga nell'aria tiepida sopra di noi, ondeggiando.
Glielo si legge in faccia.
Aisling rialza gli occhi su di me.
La bolla scoppia, e tante piccole gocce di sapone mi piovono addosso.
Non credo, mugugno io, a testa bassa.
Sorrido, però.

Let it glow


Mi ha detto l'unica battuta che non posso sentirmi dire.

Vola attraverso gli anelli di fumo, come una fata al circo. Le volute l'avvolgono, si fanno sempre più strette attorno a lei... fino a imprigionarla del tutto, stringendosi al suo corpo come ferri arroventati... penetrano nella sua carne, scottano, la ustionano... sotto il loro abbraccio bollente, la sua pelle si riempie di mille piccole piaghe, di bolle che scoppiano, facendo piovere giù pezzi di vescica... Poi i cerchi si allentano, e lei precipita giù, in un old-fashioned pieno di ghiaccio e liquido verde. La fatina ci cade senza provocare schizzi, e mentre affonda s'infiamma, e brucia nel drink, annegando.

Ora non so più quale sia la mia parte.

Madeleine. Il nome perfetto per una cameriera francese.
Perfetta con la crestina, l'uniforme bianca e nera, le calze nere appena sopra il ginocchio, e lo spolverino, naturalmente.
Madeleine che ha perso ogni speranza.
Madeleine che a quanto pare è innamorata di me.

Si sveglia con una forte emicrania, come se il suo cervello gli stesse implodendo proprio in quel momento. Per fortuna gli sono arrivati ieri quegli analgesici da Hong Kong, che coincidenza luminosa.
Non deve neppure andare nella dependance per cercarli - si è addormentato direttamente lì, all'alba, qualche ora prima.
Apre la scatolina di biscotti danesi, ora adibita ad armadietto delle medicine, prende la cura miracolosa, e la lascia sciogliere nell'acqua fredda.
Devono essere le otto, o le sette. Deve aver dormito giusto un paio d'ore, il tempo di avere un suggestitivo incubo metaforico. Scola la medicina in un unico sorso, quando la soluzione sta ancora frizzando, e si lascia ricadere sulla sedia, sconsolato.
Quel sogno gli ha lasciato in bocca il sapore amaro di assenzio.

Oh green fairy what you've done to me...
La canzone che era passata per radio la notte prima, quando lui e Madeleine si erano ritirati lì, a fumare.
Suona di nuovo, ma è più lontana, ora. Viene dalla casa, da una delle finestre che Aisling doveva aver dimenticato aperta.
Staranno scopando, è l'unico pensiero che riesce ad attraversare la sua mente, e che lo riempie di indicibile stanchezza.
La fée verte dei Kasabian continua il suo corso, spandendosi ed echeggiando in quel giardino abbandonato, dove un tempo venivano a morire i sogni.
Jordan respira piano l'aria fredda e inquinata del mattino, mentre il sole allunga i suoi raggi fino alle rose bianche, quelle rose che ormai sono fottute.

Madeleine dev'essersene andata, come da copione.

Let it lie

Sai, io... sono proprio piena di merda.
Jordan resta impassibile, soffia via un anello di fumo, lo lascia galleggiare nell'aria, e basta.
I suoi occhi rimangono freddi su di me, nei miei.
Jordan, sono innamorata.
Lo butto lì, ormai che sono.
Abbasso lo sguardo sul suo petto, sulla maglia sbottonata, con quello strano ciondolo. Sembrano delle piccole forbici, o un anello - vedo solo il cerchio d'oro, poi... potrebbero esserci delle lame, oppure niente. Il ciondolo è coperto a metà dalla camicia aperta. 
Voglio affondare.
Certo che lo sei, risponde lui. Un'altro tiro di sigaretta, lungo e assorto. Forse non è tabacco.
Oppio, fa lui, mi legge nel pensiero.
Poi vede la faccia che faccio, e si concede una risata. Ne sai davvero poco, di droga.
Annuisco, e gli prendo la cicca. Lui resta un secondo interdetto, nel dubbio - se infastidirsi o fregarsene, se lasciarmi fare o indietreggiare. Poi è come se alzasse le spalle - spinge la schiena indietro, e allenta la stretta delle dita intorno alla sigaretta. La prendo e sfilo, lentamente. Qualche scintilla di cenere mi colpisce la mano, di sfuggita.
Già, ammetto.
Lui distoglie lo sguardo, ma solo per prendere la bottiglia, davanti a noi, sul tavolo. L'avvicina e guardandomi di sottecchi versa del vino, in entrambi i bicchieri.
Bianco. Chardonnay, sembrerebbe. Ma ne so davvero poco, di vino.
Lui... chi è? mi chiede, finalmente.
Faccio il mio tiro, e quella merda mi scende, mai abbastanza in fretta, lungo la gola. Brucia.
Non tossisco.
Non rispondo.
Il tempo passa, e io non rispondo.
Guardo di fronte a me, nel vuoto, senza vedere.
Il vino riempie oltre metà del mio bicchiere. Jordan me lo passa, facendolo scorrere sul tavolo di legno grezzo. Vedo i suoi anelli brillare contro il vetro - hanno delle stelle, alcune, incise sopra. D'argento.
Poi i miei occhi si disappannano, e tornano su di lui. Lui ricambia, e prende il suo bicchiere.
Santé, mormora.
Lo imito, e levando il bicchiere gli faccio cin cin.
Oppio davvero? chiedo, per provare com'è spezzare il silenzio.
Il suo sguardo torna su di me.
Prendo un sorso.
No. Non ora, risponde.
Prende un sorso.
Vorrei, ma non posso provare, osservo io, distratta.
La sigaretta si è spenta, ormai, tra le mie dita.
La riaccende. Mentre la fiamma consuma il fiammifero, restiamo entrambi incantati a sentire l'odore dello zolfo. Un po'... nauseante, commenta lui.
Getta il fiammifero nel posacenere. Seguo con gli occhi il fumo, e gli passo la sigaretta, alla cieca, ricordandomi vagamente il percorso che la mia mano dovrebbe fare.
Tutto così...
Tocco la sua, per sbaglio.
...strano.
Alziamo entrambi gli occhi, e finiamo per guardarci, di nuovo.
Cazzo. Ecco. Ora sa, sul serio.
Potrebbe dire "ah". Sì, mi sento che dirà ah - ma non lo fa. Resta fermo, lì, davanti a me, accanto a me, col bicchere in mano. E intanto la sigaretta si consuma da sola.
Vorrei riuscire a baciarlo.
È quello che penso ogni volta che guardo le sue labbra.
Anche ora - potrei sporgermi, avvicinarmi ancora a lui, e cercare di farlo. Però... non riesco.
Le mie dita restano sulle sue.  È un contatto leggerissimo, appena accennato - i miei polpastrelli sfiorano appena le sue falangi, mentre tiene la sigaretta con la destra, mollemente abbandonata a mezz'aria, e l'altra mano sulla gamba... però lo sento. E anche lui... non può non accorgersene.
Penso alla mia germofobia, penso che potrebbe averla anche lui, e mi stacco. Non era un contatto forte abbastanza per far male finendo.
Lui non dice niente, non commenta.
Prendo il bicchiere e bevo un sorso. Chardonnay, decisamente. Sa inconfondibilmente di pipì di gatto.
Bevo ancora.
Mi ferma lui, stavolta. Mi prende la mano.
Dio, quanto fa male.
Vorrei chiedergli scusa, ma non riesco. Forse neppure dovrei.
Di' qualcosa, supplico col pensiero. Dilla.
La cicca a questo punto è andata, e Jordan la lascia cadere. Precipita dolcemente tra i frammenti di cenere, accanto ai resti del fiammifero carbonizzato.
Penso a quello che potrebbe potenzialmente succedere. Penso a noi, al fatto che potrei essere coraggiosa e fortunata, e baciarlo. Al fatto che dopo quel bacio potrebbe essercene un altro, e poi magari ancora un altro - lui potrebbe ricambiarmi, e potremmo fare l'amore. Potenzialmente, potrei finire contro di lui, col viso appoggiato al suo petto, mentre lui mi accarezza senza fretta i capelli. Potrei essere con lui, potremmo essere insieme.
C'è nell'aria qualcosa di così amaro...
Mi guarda, serio. Ora potrebbe dire qualcosa circa il fatto che sa che non mi piace quel vino.
Sono paralizzata.
Interrompo il sorso, e stacco leggermente le labbra dal bordo del bicchiere. Aspetto.
Cosa potrebbe dire mai?
Non lo sa.
Abbiamo ricominciato a guardarci. Ma perché? Lui non...
Se la tua è merda, beh, ricorda che comunque galleggia. 
...non parla molto. Non a lungo.
Penso che forse dovrei mettere giù il bicchiere. Penso all'assurdità di ciò che ho appena pensato - baciare, fare l'amore... con Jordan? Lui è come... intangibile.
Troppo lontano da qualsiasi altra cosa.
Faccio cenno di sì con la testa, ma immagino che sulla mia faccia sia palese la delusione.
Però... già lo sapevo.
Nulla di tutto questo ha senso, io... non riesco più nemmeno a illudermi.
Hai ragione, borbotto, alzandomi. Nient'altro.
Vorrei... almeno riuscire a sperare che mi fermerà. Ma non ci riesco più, affatto.
Vorrei che il mio rallentare e temporeggiare ora avesse un senso.
Lui resta lì seduto, a non fare niente.
Dalla punta della sigaretta riluce un'ultimo bagliore. Poi io mi muovo, indietreggio di un passo, sposto l'aria, e lei si spegne.
La mia mano è ancora in quella di Jordan.
Non la imprigiona, tuttavia... neppure la lascia cadere.
Mi mordo il labbro. Non ho imparato la lezione? Non ha proprio la minima importanza.
Sei tu, vorrei dire. E lo dico. Fa fottutamente male. Come strapparsi un lembo di pelle, dove non si ha ferite da cui cominciare.
Adesso vorrei scappare, dovrei restare, potrei sognare qualcosa, una buona reazione.
Ma adesso la prossima mossa è sua.
Io devo scomparire.
Lui non dice lo so, non dice ti amo anch'io, non dice no. Non mi risponde, ma continua a tenere la mia mano, senza agire.
Un nulla che finalmente potrebbe rendermi felice.
Lo vedo impercettibilmente deglutire, sbatte le ciglia, una volta - ma resta sempre con gli occhi fissi nei miei, senza lasciarmi andare.
Lancio un'occhiata al suo ciondolo, di nuovo. Quello è dorato, e forse rappresenta davvero un paio di forbici, non lo so. Vorrei spostargli la maglia abbastanza da poter controllare.
Ma non voglio perdere il tocco della sua mano.
Ti ringrazio, dice lui, dopo ore. Serio, solenne, col suo viso da sfinge incorniciato dai capelli dorati, così rinascimentale.
Davvero, aggiungo io, e alla fine mi lascio andare, e scivolo via come un'ombra di olio, nascondendomi in un angolo della camera che mi è stata destinata.
Così strano. Tutto sommato nulla di strano.



Tuesday 25 December 2012

Let it snow


Accoltellare l'uomo di cui è innamorata... ben fatta! Contorta, in ogni caso, la ragazza.
Staccandosi un brandello di pelle secca dal labbro, lei continuò a guardare nel vuoto, mentre piccole nuvolette di respiro caldo apparivano e scomparivano davanti a lei.
Ma perché... lui?
Lei continuò il suo silenzio.
Gordon cominciava a dubitare che lo stesse ascoltando.
Perché, può scegliere? chiese invece lei, dopo un po'. Senza voltarsi a guardarlo.
Lui rimase zitto. Era giusto così.
Rimasero sul terrazzo, a guardare Gotham dall'alto.
Bé, un mostro... del genere... avrebbe detto qualcuno.
Gotham sotto la neve - sotto cui Berlin stava piangendo, da sola.
Alfred si affacciò alla porta, per chiedere loro se gradissero un bicchiere di punch, per scaldarsi.
Qualcuno, nella sala dietro di loro, cantava.
Buon Natale, Jim, mormorò Rachel, dopo che l'ultima nuvoletta della serata si fu dissolta nell'aria gelata.
Buon Natale... rispose Jim Gordon, sorridendo.
La festa era finita. Tutti loro erano vivi.

Andate in pace.

Saturday 22 December 2012

No vodka no tears


Sai, Rachel, tra loro due c'è un... qualcosa... a cui non potrai mai arrivare, tu, bellissima. Perché loro hanno in comune... hanno molto.... in comune... Più che qualcosa, potremmo dire... qualcuno... Più che tra loro due dovrei dire... tra loro... quattro... Perché... tu non lo sai, ma... Bé, il nostro Dent è chiaramente... schizofrenico... le fanno bene, le medicine, al giorno d'oggi, veero? Piccoli miracoli... in pillole... e lei invece... bé avrai notato che anche lei... a volte... cambia... personalità, no? Che buffo, pensaci, lui... deve prendere qualcosa... per non essere... qualcun altro, mentre lei... deve evitare di prendere una certa... cosa... per non diventare qualcun altro! Magia, vero? C'è proprio della magia, nell'aria di Gotham... la magia che c'è tra loro, non trovi tutto questo... terribilmente... romanticoooo?

A quel punto l'altra scoppia a ridere - Berlin, se così si può dire.
Rachel è rimasta zitta, si limita a guardare J con gli occhi sgranati, in trepidante scetticismo.
Aaah... davvero, J? Sei serio? chiede l'altra, appena riesce a smettere di ridere. Vedi davvero della... magia, qui da qualche parte?
Lui fa per rispondere, ma lei riprende a parlare, indifferente.
L'unica magia potrebbe essere quel gas velenoso... sì, ha proprio un effetto... soprannaturale. Lui ama lei, che ama quello là - indica Wayne - che ormai non la ricambierà più. E quanto a me - pausa drammatica - bé, non mi ama nessuno. L'ultima volta che c'è stata magia, per me, è stato quando mi hai corroso l'utero.
Il suo sorriso crudele si spegne all'improvviso, e gli occhi le si riempiono di lacrime. Senza che nessuno abbia il tempo di prevederlo, la ragazza si avventa contro J, e gli pianta il coltello in pancia. Lui la guarda contento, e cade a terra, di schiena, sotto la spinta di lei.
Berlin lo lascia lì a sanguinare, lui non si rialza.
Slega i suoi compagni di ricatto, e piagnucolando corre via, lasciando J nelle mani della giustizia.
Quando esce sbatte contro Dent, che sta arrivando dalla direzione opposta. Riesce solo a frignare un Lei sta bene, prima di ricominciare la sua fuga dalla festa.

Solo quando è finalmente al sicuro, nel vicolo buio in cui sfocia l'uscita di servizio, riesce a respirare di nuovo.
J la aspetta fuori, appoggiato al muro col nodo della cravatta sciolto, il coltello tra le mani, e una macchia che si allarga piano piano sul panciotto.
Allora è l'alcol, che ti fa trasformare, piccola?
Lei si asciuga gli occhi col dorso della mano, e guardando gli scarafaggi che danzano sull'asfalto annuisce.
Ottima scelta, dolcezza, commenta lui, lanciandole il coltello.
Berlin lo prende al volo, imbrattandosi di rosso le mani.
Vorrebbe scusarsi. Non dovrebbe scusarsi.
Ti porto a casa, si ritrova a dire, e come guidata da lunghi fili invisibili si avvicina a lui, e insieme si trascinano verso una qualche lontana topaia inospitale.

Friday 21 December 2012

Fragole rivelatrici, fragole allucinogene


Lei allora rise, giocando con la fragola, che aveva immerso a metà nella coppia di champagne.
H la guardò interrogativo, perché non aveva detto proprio nulla, comico o meno.
Sai, disse lei dopo un po', lo sguardo rapito dalla fragola, che teneva ora sollevata davanti a sé, lasciando che le gocce le scendessero lente lungo le dita. Per un attimo, poco fa... mi è sembrato che tu fossi due... due persone diverse... in una... contemporaneamente, insomma... fece un piccolo sospiro, come soffocando una risata amara. Se fosse davvero così... saresti l'uomo perfetto, no? concluse poi, lanciandogli un'occhiata triste e ammiccante.
H restò interdetto, mentre quel due gli rimbombava dentro, all'altezza del petto, curiosamente insistente.
Lei poi aveva assunto quell'aria, così... diversa, così adulta e intrigante e sofferta, nel dirlo...
B prese la fragola tra le labbra, e nel morso un rivolo rosso di succo le scivolò dalla bocca, fino al mento. Arrossì e ostendando nonchalance si pulì con un rapido tocco dell'indice, macchiando così di fragola il suo lungo guanto bianco.
Ed eccola cambiare ancora. Prima così aspramente affascinante, e adesso... così timida e dolce.
H ricordava ancora quell'immagine... quell'istantanea di lui che la prendeva da dietro, sul tappetto persiano davanti al fuoco, mentre il bourbon bagnava la pelle di lei, così buona... Come l'aveva girata, dopo averla baciata sulle labbra senza riuscire a trattenersi, sotto i suoi occhi grigi e ipnotici, che avevano in quel momento una luce così... diversa, così provocante e sensuale... come l'aveva girata dopo averle aperto la camicia, la sua camicia, che lei indossava per un così assurdo... caso..., e averla vista come per la prima volta... un angelo oscuro, ecco l'unica cosa che era riuscito a pensare, quando sotto le sue mani quel bizzarro completino in tartan bianco e nero si era praticamente dissolto, e il corpo di lei era rimasto indifeso e nudo contro il suo... Ma le aveva lasciato addosso quella camicia... L'aveva girata, dopo un lunghissimo bacio, durante il quale aveva creduto di sentire il cuore di lei nel suo petto, accanto al suo, o forse al posto del suo... e poi l'aveva presa, l'aveva scopata senza fermarsi un attimo, senza lasciarle o lasciarsi neppure il tempo di respirare... E quando lei all'improvviso si era abbandonata a un gemito che sapeva di passione e di dolore, allora lui era finalmente venuto... lei aveva tremato per un po', per poi crollare con lui, senza parlare, ed erano rimasti là davanti al fuoco, devastati, lasciando che uno strano sollievo li cullasse entrambi.
Ah, bé, credo di sì. Sarebbe un'incarnazione molto zen, non trovi? rispose lui, appena si riprese. Non era esistita Rachel, per lui, in quella tempestosa notte. Poi sorrise, per darle la conferma che scherzava. Si stava prendendo in giro, non pensava certo di poter essere... perfetto. Complesso. Completo.
Lei prese tra le dita un'altra fragola, dopo aver studiato con cura l'intero vassoio, e stavolta la intinse nella panna, che poco prima si era fatta portare. Dopo di che le diede un bel morso. Doveva essere proprio una fragola dal gusto spettacolare, perché il viso di lei si illuminò.
Lo Yin... deglutì. Scusa. E lo Yang. Fusi in un unico essere vivente. mormorò, estasiata.
Non è in tutti così? le chiese lui, che a dire il vero non amava troppo il materiale new age e la filosofia orientale. Lui era un uomo d'azione, per lui contavano...
Berlin lo guardò sorpresa. Davvero? fece, in un tono sinceramente sconvolto. Come se l'avesse tanto desiderato.
...i fatti.
Uh, pensavo che l'idea fosse... che in ciascuno di noi ci sono sia il bene che il male, il principio "caldo" e quello freddo... il bianco e nero, dissero insieme, insomma, continuò lui, leggermente spiazzato. Ma che diavolo gli stava succedendo, quella sera?
Già, il problema però... è che di solito uno dei due è dominante, intervenne Berlin, accostandosi la coppa alla bocca, e guardandolo di sottecchi. Aveva una sicurezza di sé, una specie di baldanza... così diversa dal tenero candore che aveva mostrato fino a poco prima, quando aveva divorato la fragola... ma non fingeva, non era una posa... era come se fosse a un tratto una scolaretta, a un tratto una donna... sofisticata e innocente, adorabile e... H mandò giù un gran sorso di vino. Ma che cazzo aveva quella sera? ...scopabile.  
Invece vedi, il mio problema... è che in me quei due estremi sono in equilibrio... un equilibrio che però... è dannatamente precario...
Aveva iniziato a parlare con l'inflessione di quel pazzo bastardo, ma H non ci fece caso, non stavolta. E poi mancavano gli accessi di risa isteriche, e le urla spaventose.
Vorrei sapere se c'è sul serio anche qualcun altro, come me... che passa da un momento all'altro, spesso senza un vero motivo... da una faccia all'altra...
H trasalì.
Di questa strana medaglia.
Berlin concluse, con gli occhi carichi di speranza. Doveva starci male davvero, ad essere così instabile.
Poi alzò le spalle e sorrise con falsa spensieratezza. Bé, sono lunatica, o borderline, o bipolare, o melodrammatica, ma che ci vuoi fare? Saranno gli ormoni, e buttò giù metà del contenuto del suo calice.
Sapeva...? E cosa avrebbe potuto sapere? Certo, quando si erano... incontrati, la prima volta, lui era stato da poco ridotto a Due facce, ma poi... l'avevano curato... era guarito, era tornato come prima... Però lei... a quanto sembrava, anche lei in fine dei conti non era mai cambiata... Che potesse sapere... semplicemente, come ci si sentiva? Che potesse capire lui, davvero?
H rimase a fissarla confuso, mentre il commissario Gordon gli compariva al fianco, decantando a gran voce le lodi del rinnovato procuratore, e trascinandosi dietro una folla di ricche signore adoranti, da cui sembrava non voler altro che scappare.
Berlin lo salutò con un cenno della mano, come una brava bambina, e allegramente cinguettò: Signore, ecco il signor Dent, è tutto vostro! e sgusciò via nella calca delle matrone, che subito circondarono H.
Scusami, sono proprio una dannata egocentrica... E scusa anche il discorso astruso, sarà stata la luce! gli sussurrò, passandogli accanto, per poi allontanarsi alla ricerca di nuove fragole, presto raggiunta dal maggiordomo.
H non fece in tempo a contemplare i propri dubbi, presto travolto dalla generosa curiosità delle benefattrici di Gotham.
Vide solo Rachel chiacchierare con Wayne, in compagnia del commissario appena sfuggito alle sue sostenitrici.
Berlin era sparita, si era rifugiata in terrazza, e con il calice semivuoto ammirava le stelle, che per una volta luccicavano in tutto il loro biancore nel cielo scuro della notte.



Thursday 20 December 2012

Mele e psicofarmaci


C'è un solo uomo al mondo, per me, un solo uomo perfetto.
Quello che mi ha risvegliato con un bacio, che ha fatto sparire la mia bara di cristallo. Quello che mi sono trovata accanto quando pensavo di essere caduta nel baratro, da sola. Quello che mi ha fasciato i polsi prima che potessi tagliarmeli, e ha fatto di me una donna viva.
Conosco un solo uomo, al mondo, l'uomo che se potessi vorrei diventare.
L'unico che riesca a trovare bello, l'unico che mi risulti interessante.
Ha gli occhi di un profeta scomunicato, e il viso di un angelo venuto all'inferno a trovarmi.
Dolce, geniale, eccitante, perverso.
Un camice bianco, aperto su una camicia nera con cravatta, e le mani sempre sporche d'inchiostro.
Ha perso l'aureola, perché l'ha data a me - mi ha ammanettato con quella, perché non potessi più farmi del male. E poi mi ha legata a sé, prigioniera per sempre.
Qualcuno potrebbe dire che mi ha rapita, o salvata. Io resto con lui, comunque.
Ha la voce con cui cantava Orfeo giù negli Inferi. Le braccia bianche, come una vetrata gotica di vene blu, e naturalmente una bella vecchia cicatrice.
Oh, wow. Già.
Qualcosa mi ha buttata giù, qualcuno forse mi sta tirando su.
Doc è l'uomo perfetto... peccato che però non esista.
Doc è l'uomo perfetto, proprio perché non esiste.


Nemesi


E nell'assoluta mancanza di senso del tutto, qualcosa mi si getta addosso, stendendomi sul pavimento.
Faccio appena a pensare alle migliaia di germi, ai miliardi di germi che popolano quella superficie che sembra linoleum - come se io sapessi cos'è il linoleum -, che la cosa che mi ha colpito inizia a prendermi a calci. Poderose stilettate, letteralmente. Sembrano proprio costose e chic le scarpe francesi con tacco 12 che mi accarezzano dolcemente il fianco, mentre cerco senza fiato di rialzarmi.
Arriva un momento in cui una ragazza non sa più cosa sia il dolore - e quel momento per me è arrivato poco fa, quando il mio sacro vaso è stato invaso, e il mio pudore è volato via con Cupido. Tra le gambe sento ancora le fitte che immagino diano gli spadoni medioevali quando affondano nella carne, o i tronchi per l'impalamento, ma è un dolce piacere. M'immagino il sangue che macchia delicatamente le mie mutandine, e tra l'esaltazione e lo svenimento rotolo sul fianco libero e mi tiro su, appoggiandomi al muro.
Mi sistemo un po', per essere presentabile quando incasserò il prossimo assalto, e finalmente vedo la belva che mi ha colpito. Ha tutto l'aspetto di una dottoressa, con grandi occhiali tondi sul volto dai tratti raffinati, reso più austero e meno avvicinabile dai capelli raccolti e un camice bianco inamidato, adesso un po' spiegazzato dall'assalto.
Puttana, urlano i suoi grandi occhi verdi, e l'odio lampeggia, amplificato dalle grandi lenti.
Uh-oh, inizio a capire chi potrebbe essere. Giochiamo a Indovina chi - "è psicolabile, e si è infiltrata qui ad Arkham sotto mentite spoglie?" - troppe domande, dovrò saltare un turno.
Puttana! urla lei, e solo allora mi accorgo che da tutte le... ehm, camere con vista del corridoio si affacciano volti che poco concilierebbero il sonno, e che paiono inneggiare alle imprese della sottoscritta.
Che cazz... inizio, ma la dottoressa, all'apparenza tanto bionda quanto instancabile, mi si scaglia di nuovo addosso.
L'indolenzimento alle gambe reclama di colpo la mia attenzione, e mi sento d'un tratto inaspettatamente carica.
Il mio sguardo è attirato da una bellezza tutta curve dai capelli di fiamma, nella vetrata dritta davanti a me.
Colpisco distrattamente la mia assalitrice con un calcio rotante, ma non riesco a staccare gli occhi di dosso a quella visione. La dottoressa torna all'attacco, mi afferra un braccio, conficcandoci le unghie, lunghe, perfette, e smaltate di rosso e di nero, e con la mano libera mi strattona i capelli, ridacchiando tra sé dei miei nodi e delle mie doppie punte. Mi sento mortificata - normalmente non m'importerebbe, anzi, le darei allegramente ragione, ma oggi... oggi devo essere perfetta! Un altro calcio, nello stomaco, e poi via di zampate, senza pensare e senza pietà, ovunque capiti, tranne in piena faccia e sul seno - quelle sono zone sacre. Continuo finché non riesco a liberarmi, e quando finalmente riacquisto l'uso di entrambe le braccia mi getto addosso al nemico, o meglio alla nemica, schiacciandola contro il muro. Riesco a girarla e scaraventarla di faccia contro una vetrata, poi lei mi sfugge e i ruoli s'invertono - mi sbatte al muro.
Un'occhiata sarcastica, e non si trattiene: Mah, contento lui... mah, dev'essere proprio esaurito! Accontentarsi così, di una come te...
Ma non la lascio finire, e strappandole una penna dal taschino gliela punto contro.
Non ti muovere, devo giusto aggiustare... quei bei baffoni che stamattina hai dimenticato di spuntare!
Non è la mia battuta migliore, ma è macchinosa abbastanza da lasciarla senza parole, mentre le avvicino a tutta velocità la punta della penna alla faccia. La respinge con un rapido colpo di mano, ma a quel punto ne approffitto per lanciarmisi addosso a lei fino a farla cadere, come ho imparato nei buoni vecchi allenamenti ad educazione fisica.
Per una portentosa botta di fortuna le finisco sopra, schiacciandola col mio peso più o meno piuma, sufficiente a crearmi numerosi complessi, ma anche a tenerla a terra senza darle possibilità di recupero.
3, 2, 1, knock ou...
Siamo finite proprio davanti alla cella della rossa. La quale mi guarda con un sopracciglio elegantemente alzato, giocando con una rosa rossa come il fuoco dell'inferno, che pare sbocciarle tra le dita proprio ora, lì, sotto i miei occhi.
J...Jessica Rabbit? mormoro, bloccando contro il pavimento che prima supponevo sudicio i polsi della dottoressa. Sono seduta su di lei, con le ginocchia piegate contro la sua vita, e sotto di me si mostra in tutto il suo prosperoso splendore il fisico della mia nemica. Ha il seno così grosso che nella lotta il camice le si è aperto, mostrando uno scorcio della succinta camicetta che ha sotto - ma la mia attenzione è stranamente altrove.
Quella posizione. Il mio corpo ricorda, d'altronde è appena successo - avvampo e tutto sembra prendermi fuoco. Un calore bellissimo che mi offusca la mente - e un bruciore senza interruzioni all'inguine, con qualche crampo anche agli addominali e alle cosce. 
Ragazzi, sono vecchia.
La rossa dalla bocca di rosa mi fa l'occhiolino, e per poco non svengo - ma la debolezza non è dovuta a lei, per quanto eccitante possa essere. Anche questo è strano, lo so. Ma io non ci penso, e mi volto verso la cella da cui dovrei essere appena uscita, se il combattimento non ci ha fatto piombare in un altro piano, o dimensione.
Lo intravedo mentre sorride, e alza il pollice, in segno di approvazione - poi qualcuno mi afferra per il braccio e mi tira su, facendomi alzare dalla rivale sconfitta. Il mio vecchio amico - mi lancia un'occhiata amichevole e preoccupata insieme, per sapere se sto bene. Io mi affretto ad alzare il pollice in su, come a dirgli oh yeah. Lui ride scuotendo la testa, senza capire (spero) il motivo della mia incurante euforia, e mi scorta lungo il corridoio, verso il mondo purtroppo reale.
Lo seguo, e così ci lasciamo quel piano, il mio preferito ad Arkham, alle spalle.
L'ho visto - è stato solo un attimo, ma mi è bastato. Sembrava contento, o almeno fiero di me.
Questo mi basta - questo, e che non abbia orrore ad avermi sverginata.

Tuesday 18 December 2012

dal Doctor Faustus


Ora, la parola “genio ha” ha certamente un suono, un carattere, nobile, armonico e umanamente sano, seppur trascendente l’ordinario […]. Eppure non si può negare e non si è mai negato che i demoni e l’irrazionale abbiano una parte sconcertante in questa zona radiosa, e che tra essa e il regno infero esista sempre un collegamento capace di suscitare un leggero brivido e che appunto perciò mal le si adattano gli epiteti rassicuranti che ho tentato di attribuirle, gli epiteti di “nobile”, “umanamente sano” e “armonico”, anche quanto – stabilisco la differenza con decisione quasi dolorosa – anche quando si tratti di una genialità pura e genuina, elargita o magari inflitta da Dio, e non di una genialità acquisita e rovinosa, del divampare peccaminoso e morboso di doti naturali, dell’esercizio di un orrendo patto di compravendita…

                        THOMAS MANN, Doctor Faustus, Mondadori, Verona 1956


Doc


Doc aveva un segreto, o forse un'intera miniera di segreti.
Una camera delle torture e dei segreti, una cripta, un... Ma non smarriamoci - Doc fa quest'effetto.
Doc aveva un segreto, un bellissimo, oscuro, profondo segreto, nascosto dietro le lenti dei suoi occhiali, tatticamente progressive e graduate, da qualche parte nel mezzo di quella foschia azzurra urticante che erano le sue iridi. Un segreto che riposava dietro il suo sorriso smarrito - lungo le profonde cicatrici che gli solcavano il viso.
La prima volta che lo vide, mentre le teneva la mano in ospedale, facendo attenzione a non toccarle il polso fasciato, Munchies rimase a bocca aperta - il tacito stupore durò poco, ovviamente.
Joker! esclamò, come se avesse appena preso parte a un miracolo.
Lui, che c'era ormai abituato, aveva abbassato lo sguardo, aspettando che Munchies si riprendesse.
E guardandolo dall'alto del suo letto d'ospedale da 100 denari a notte, Munchhausen aveva notato che il volto del misterioso visitatore era stato davvero sfigurato - come se un simpaticone armato di machete avesse voluto trasformare quel quattrocchi nella mitica Rana dalla Bocca Larga.  
Figo, pensò, mentre l'estasi della morfina che le circolava in corpo, per uno scherzo delle infermiere, iniziava lentamente a scemare.


Monday 17 December 2012

Münchhausen


Come una tigre bianca!
Munchies parlò all'improvviso, scuotendo il silenzio della sala come un sassolino gettato nel pozzo.
Doc sbatté le ciglia, una volta, riscuotendosi da quello che sembrava un sonno ad occhi aperti. Aveva riposato per un po' dentro di sé, o stava semplicemente pensando?
Oppure una cioccolata albina con qualche goccia di curaçao, aggiunse poi Münchhausen meditabonda, arricchiando le labbra per sostenere una matita tra la bocca e il naso.
Doc la guardò perplesso ancora per un momento, e poi scoppiò a ridere, abbassando la tazza che prima teneva sospesa sul piattino.
S'immaginò che beveva una cioccolata azzurra, da quella stessa tazza, per poi ritrovarsi la testa tra le fauci di una tigre albina, al primo sorso.
Piuttosto inspiegabilmente, la vignetta che realizzò disegnando quella scena ebbe un grande successo, e Munchies vide comparire sulla lista della spesa generose quantità di cioccolata bianca e liquore al mandarino.


Sono innamorata del colore turchese.


Sono innamorata del colore turchese.
Perché é il colore dei suoi occhi.
Iridi senza contorno, da cui il turchese si spande tutt'intorno, iridescente, così brillante da bruciare alla vista.
Sembra acqua magmatica, ghiaccio fluorescente, quel gelo che arde tutto e che sa di anice e menta.
Turchese che risalta ancora di più sul bianco perfetto che lo circonda e esalta, sulla sua carnagione di neve bianca e Biancaneve... come una sorgente pura su un'altura incontaminata.
Troppa innocenza da potersi sopportare.
Uno sguardo così ti polverizza in piccoli cristalli, è come appoggiare le mani nude a una lastra di vetro sottozero. Ci resti incollato, e ti farà un po' male.
Quel colore che cambia continuamente, che non riesci a definire, perché sotto la luce continua a trasformarsi e sparire... una gelatina instabile, una radiazione che pietrifica, tanto è fredda e letale.
L'aura di un fantasma che illumina gli abissi.

Quel colore mi perseguita, mi striscia dietro senza farsi beccare, perché é una sfumatura che non riesco a catturare.
Dietro le lenti dei suoi occhiali, lucide e spesse, impenetrabili... quelle lenti fanno da scudo, e non si possono oltrepassare. Né da un senso, né dall'altro - non potrà mai uscire, la sua anima, e io... non potrò mai entrare, ma è una legge di natura.
Ci sono anche armature che dentro non hanno niente, tesori custoditi da guardie già ammazzate. Bisognerebbe solo cercare... un antidoto contro la ricerca.
Da quando ho visto quegli occhi, mi sto assiderando dentro. I brividi sono passati, adesso tocca al sogno.

Questo non è turchese.


Sunday 16 December 2012

Munchies

Quando si tagliò le vene, Münchhausen stava solo tentando di stare meglio, almeno per un po’.
Quindi aveva pensato di recidere i problemi sul nascere, e prendersi così qualche tempo di riposo.
Nessuno le credeva mai, quando Munchies confessava di sentirsi male.
Ecco perché la chiamavano Münchhausen - perché pensavano tutti che si inventasse il malessere, per rendersi più interessante, e farsi coccolare.
Munchies era una ragazza piccolina, una chibi beauty che ricordava una bambola di porcellana, a cui però mancava quella terrificante luce negli occhi. Era come se la sua anima si fosse spenta, e lei di tanto in tanto cercasse dentro di sé il pulsante giusto per riaccenderla.
Aveva gli occhi scuri, i capelli scuri, la pelle così pallida da apparire quasi verdognola, e il seno troppo piccolo, come spesso gli altri non mancavano di farle notare. Non stava bene, con gli altri, e questo era solo uno dei tanti motivi.
Ma fu proprio quando Münchhausen decise di dare un taglio netto alla sua melanconia, che suo malgrado sopravvisse, e trovò lavoro come maid al servizio dell’uomo che lei chiamò sempre e solo Doc.
Doc era e un attimo dopo non era ciò che era fino a poco prima, come lo Stregatto. Solo che non sorrideva mai, anche se sembrava che sorridesse sempre: aveva le labbra increspate da un sorriso triste e gentile, e ogni tanto, quando Munchies ne combinava una delle sue, rideva addirittura, ma era una risata delicata e sommessa, che sembrava venire in forma di eco dall’Al di là. Forse anche lui era defunto dentro, pensava qualche volta lei, ma poi questo le pareva incredibile, perché Doc per lei era il migliore tra gli uomini. Non poteva certo avere qualcosa in comune con lei, quello scarto di topolino di fogna che era Münchhausen.     
 Era anche bello, Doc, ma questo Munchies preferiva non ammetterlo, perché altrimenti lo sapeva, che sarebbe caduta nel solito vortice, e chissà dove sarebbe stata scaraventata stavolta.                                          
E così, ogni volta che il sorriso strano di Doc le faceva venire le vertigini o le riempiva di spilli gelati il cuore, Munchies si sistemava la crestina che troneggiava sulla sua massa di capelli mossi e dotati di vita propria e personalità ancora più particolare, e si rimetteva a pulire – perché lei riusciva sempre, ma in quei i casi con un’abilità in particolare, a trovare qualcosa che andasse lavato e ripulito per bene.
Doc era l’unico sulla faccia della Terra a non far sentire Munchies un castello di carte alle prime folate di un tornado.
E Munchies, per Doc… non ne abbiamo proprio il minimo indizio.
Münchhausen adorava il colore argento. E proprio d’argento erano le catene con cui Doc l’aveva legata. Questo legame rendeva un po’ complicato svolgere alcune delle sue mansioni quotidiane, ma lei non se ne preoccupava, perché così era felice lo stesso.                                                                              
Doc l’aveva presa sotto la sua grande ala di albatros, non perché lei fosse proprio lei, ma perché era stata l’unica che si fosse mai avvicinata a lui, senza paura, e senza interessi.                                                            
Münchhausen era per lui un curioso esperimento, bambolina a metà tra una Musa e una serva.


Wednesday 12 December 2012

Love to death


Lei si getta su di me, ed è allora che i proiettili partono.
Schizzano contro di noi come una muta di cani rabbiosi. Due affondano dentro di lei, solo dentro di lei... il terzo ci trapassa entrambi, ed è allora che so che è finita.
La stringo a me, forte. Il dolore ha mandato in tilt ogni buon... ogni senso. La stringo forte e lei sembra non sentire altro che questo, alza gli occhi - e per una volta non sono tristi, per una volta lei sorride!
Ha sulle guance un leggero rossore, ma forse è solo il sangue che ci stiamo spandendo addosso.
Barcollo indietro, e lei barcolla con me - è nelle mie mani... tra le mie braccia, e non scappa via.
Come se quel proiettile, che ci ha attraversati entrambi, che mi è appena sbucato fuori, andando a cadere nel nulla dove tra poco cadremo noi... perforandoci la cassa toracica ci avesse inchiodati l'uno all'altra.
Le mie dita affondano nel suo cappotto, posso sentire quasi la sua spina dorsale, la sua carne bucata dai colpi, e bang! mentre una donna grida, mentre le sirene fanno il loro onorevole chiasso, la piccola ne incassa un altro. Qualche secondo e la botta arriva anche a me.
Lei mi cinge la vita con le braccia, mi guarda ancora un attimo, e ormai stiamo precipitando.
I suoi occhi si appannano, ed io non vedo più niente.
Cadiamo, voliamo giù, per attimi, ore, un'eternità.
Goccioliamo via la vita, e prima che i nostri corpi tocchino il suolo e si spiaccichino, siamo già morti. Insieme.
Qualcosa ci si avvita intorno, è un filo freddo e resistente... ma ormai è troppo tardi, pour moi, mon ami.
Lei è stata uccisa. Te l'avevo detto, che era la mia bambolina voodoo.



Orphe


E poi, alla fine, la vedo.
Sorge come la luna, attraversa il cielo oscuro in quella stanza, e tra le nuvole d'incenso senza parole se ne va. Ma il segno che lascia dentro di me, quello rimarrà per sempre. 
I riccioli neri d'inchiostro, che le incorniciano inanellati il volto ovale e perfetto... sul cui candore d'avorio irradiano la loro luce inquietante occhi da gatto, di un verde tossico, radioattivo.
Sul polso intravedo due simboli, perfettamente tracciati dall'ago di un grande artista. Hanno un che di liberty, un contorno di linee sinuose che le serpeggiano sulla pelle - un piccolo cuore, color san Patrizio in acido, legato da un laccio, o una catena, o solo accostato... a un altrettanto piccolo teschio, bordeaux rappreso, con le tibie incrociate, dietro, di quelli che sorridenti simboleggiano il veleno.
Faccio appena a vederla in viso, che subito scompare, e cala davanti a me la carta.
La tredicesima.
Il sorriso della fanciulla dalle labbra di viola aleggia ancora nella stanza, la illumina di una strana clorescenza, mentre sfioro con le dita l'arcano che il fato ci ha destinato.
La ragazza è scomparsa, forse non c'è neppure mai stata, ma so che ormai si è impressa a fuoco nella mia testa, insieme a quella carta, e non voglio che venga cancellata.
La lascio scivolare nella tasca interna della giacca, e faccio per andarmene.
L'uomo davanti a me annuisce placido, e con un ampio gesto della mano mi indica un'uscita, invisibile, una tra le tante pieghe della tenda di velluto che ci circonda. 
Procedo a caso, nella direzione che la sua mano ha indicato, e l'incenso dalle narici mi riempie la testa, schiacciando con le sue volute e soffocando ogni pensiero. 
Ha lasciato che prendessi l'arcano. Perché quello era veramente mio.
Il mio.
La Morte.
E lei è quella carta.
Segno di trauma, rinascita, e liberazione.